Storia

Notizie Storiche Sant'Angelo a Legnaia

XI-XIII (origini carattere generale)
Presso l'incrocio tra via di Scandicci (via della Volta a Legnaia, della 'svolta' all'altezza di Legnaia, diverticolo della via Francigena) e la Pisana sorge il borghetto lineare di Legnaia, là dove già in epoca romana esisteva un vicus. Qui dovevano esservi vasti depositi di legname, dai quali deriva il toponimo. Incrocio strategico e luogo di confine, Legnaia nell'XI secolo è ancora sotto l'influenza dei Cadolingi. Le prime fonti documentarie della chiesa, San Michele Arcangelo, risalgono al Duecento (1274; 1286). Secondo il Calzolai, invece, il primo documento sulla chiesa de Lignaria risalirebbe al 1009, ma in tale pergamena si parla solo della donazione di una parte di "sorte" alla Canonica fiorentina e l'Ecclesia citata è quella di San Giovanni, cioè la predetta Canonica. È possibile teoricamente che la chiesa di Legnaia, comunque, soprattutto se davvero dedicata in principio anche a San Salvatore, fosse legata ad origini germaniche di ascendenza longobarda.
XII-XIII (cenni storici carattere generale)
Già nella prima metà XII secolo il borgo di Legnaia fa parte della “Judicaria florentina" ed è legato in parte alla nobiltà guelfa del contado, in particolare alla famiglia degli Orciolini. In seguito alla sconfitta guelfa nel 1260, i Ghibellini devastano le loro case e le loro terre e gli abitanti di Legnaia dovettero rifugiarsi “intra turrem” (la Torre di Legnaia). La rammentata torre degli Orciolini verosimilmente non era altro che il cassero della cosiddetta Rocca di Legnaia (forse, precedentemente al 1113, dei Cadolingi), poi in mano ai Fiorentini e a difesa occidentale proprio contro le ultime ingerenze ghibelline. Essa, già ritenuta il Palagio de’ Diavoli a Monticelli, è stata identificata ipoteticamente con gli scomparsi avanzi di spesse muraglie venute alla luce nel 1959 all'interno dell'isolato delimitato dalle moderne vie dell'Olivuzzo, Spinello Aretino, Cosimo Rosselli e Domenico Veneziano, una curtis comprendente la rammentata torre.
XIII (cenni storici intero bene)
La chiesa del Duecento, forse di patronato degli Orciolini e riedificazione parziale di un ipotetico edificio sacro preesistente, è a navata unica, verosimilmente absidata. La navata, il cui modulo è il piede di Liutprando (l'unità di misura di origine longobarda che si richiamava al cubitus romano e che venne impiegata a Firenze fino all'inizio del Duecento), si basa sul rapporto larghezza/lunghezza di 1:v5, rapporto simbolicamente 'incommensurabile', che era proprio degli edifici romanici toscani dei secoli XI-XII, compreso il duomo di Pisa. Tali rapporti confermerebbero una chiesa il cui terminus ante quem per la fondazione sarebbero gli inizi del Duecento. A nord della chiesa forse vi è un'area cimiteriale, mentre ad est di un probabile chiostro porticato meridionale (per accogliere i pellegrini in transito?) è posta la piccola canonica, prospiciente la via: una domus solariata, vale a dire dotata di un piano superiore.
XIII - XIV (ricostruzione intero bene)
Fra Tardo Duecento ed inizi del Trecento, forse a causa di alcuni crolli dovuti all'inconsistenza del terreno, la chiesa è verosimilmente ricostruita, almeno in parte, e a sud possiede un chiostro murato, del quale sono visibili ancora porzione dei conci della muratura.
1286 (cenni storici carattere generale)
Nel 1286 è rettore della chiesa un Ugolino.
1347 (cenni storici carattere generale)
Nel 1347 è rettore della chiesa Piero di Banco.
1390 - 1410 (fondazione compagnia)
Agli inizi del Quattrocento, presso la chiesa, viene fondata la nuova Compagnia di Sant’Agostino da un gruppo di confratelli, già membri della Venerabile Confraternita di Sant’Agostino, creata presso il convento agostiniano di Santo Spirito Oltrarno nel 1382. La nuova Compagnia ha la propria sede in un piccolo oratorio posto a nord della chiesa e in aderenza ad essa e si era portata con sé (secondo la tradizione scritta e orale), insieme ai vecchi capitoli, il Crocifisso ligneo processionale del nono decennio del Trecento/ prima decade del Quattrocento, ascrivibile alla bottega dell'Orcagna, lasciando alla Compagnia di città quello del 1399, risalente a quando la Compagnia stessa si era fusa con quella dei Bianchi. Tale Crocifisso recentemente si è voluto datare agli anni Sessanta del Quattrocento e darlo a Donatello, ma l'ipotesi, avanzata solo su temi di raffronto, non è sostenibile.
1400 - 1430 (ricostruzione tribuna)
Spettano al parroco Giovanni Lupori da Lucca la ricostruzione gotica della tribuna agli inizi del Quattrocento e la commissione del polittico di Mariotto di Nardo per l'altar maggiore (1400/1410) e degli scomparsi cicli pittorici eseguiti dalle botteghe di Niccolò di Pietro Gerini (circa 1345-1415) o di Piero di Miniato (circa 1366-1430/1446) fra il 1400 ed il 1430 circa.
1440 (realizzazione opera pittorica)
Attorno al 1440 Bicci di Lorenzo (circa 1373-1452), in collaborazione con il figlio Neri (1418/1420-1492), esegue un'”Annunciazione” per l'altare della Vergine Maria.
1511 (realizzazione opera pittorica compagnia)
Agli inizi del Cinquecento la Compagnia viene impreziosita di un'opera artistica, la prima a noi nota realizzata appositamente per tale confraternita: la tavola di matrice ghirlandaiesca raffigurante la “Madonna in trono con il Bambino tra San Ludovico di Tolosa e San Girolamo”, attribuita al cosiddetto Maestro del Tondo Borghese o Maestro del Tondo Griggs (già identificato dubitativamente con Jacopo del Tedesco, un allievo di Domenico del Ghirlandaio, noto 1485-1520). Datata 1511, già erroneamente detta dal Moreni essere del 1415, è per la prima volta segnalataci in Compagnia solamente in un inventario del 1717.
1529 (cambio di patronato carattere generale)
Prima del 1529 il patronato della chiesa, già dei popolani nel Quattrocento, passa ai Capitani di Orsanmichele.
1587 - 1595 (ricostruzione compagnia)
Dai documenti sappiamo che nel 1587 già esiste – e forse da tempo – uno spogliatoio-sagrestia per i confratelli della Compagnia, posto in testata dell'oratorio, verso occidente, in luogo di un precedente spazio aperto. Fin dal 1594, ai tempi del provveditore Lorenzo di Simone Rosi e del governatore Niccolò d’Agnolo Bellini (appartenente ad una famiglia di falegnami, mezzadri e piccoli proprietari, presente nei 'popoli' di Sant'Angelo a Legnaia e di San Pietro a Monticelli), le condizioni della sede della Compagnia di Sant'Agostino non sono più buone e, così, nel settembre di quell'anno i confratelli decidono una sua ricostruzione, che viene iniziata nell'aprile del 1595.
1600 - 1606 (opere artistiche e interventi architettonici intero bene)
Risalgono agli inizi del Seicento due importanti commissioni a Francesco Curradi: un “Gesù crocifisso fra Santi” (del 1600/1601), per l'altare che la Compagnia di S. Agostino possiede all'interno della chiesa di Sant'Angelo, ed una “Sacra Conversazione” (del 1602), dipinta per l'altare dell'oratorio della Compagnia medesima, a conclusione dei predetti miglioramenti architettonici. Sempre agli inizi del Seicento risalgono la risistemazione della tribuna con il coro di Compagnia (1604/1605) ed alcuni lavori al campanile della chiesa (1606).
1620 - 1633 (interventi architettonici e pittorici intero bene)
Gli interventi architettonici e pittorici degli anni Venti e Trenta del Seicento sono promossi dal parroco Giovanni di Sebastiano Brunori (rettore della chiesa dal 1598 al 1633, anno della morte) e riguardano i vari portali e l'altar maggiore, quest'ultimo progettato nell'ambito della bottega di Gherardo Silvani (1579-1675) e concluso con la tela raffigurante San Michele Arcangelo che abbatte il demonio, opera del già rammentato Francesco Curradi, del 1633 circa.
1664 - 1673 (cappella di S. Aurelio e controsoffittatura compagnia)
Nel 1664 viene tolto dalle catacombe romane di San Callisto e concesso alla Compagnia di Sant’Agostino il corpo del martire protocristiano Aurelio. Le reliquie vengono traslate a Legnaia solamente nel 1665 e sono collocate presso il rammentato altare del SS. Crocifisso nella chiesa di Sant'Angelo. In seguito ad alcune divergenze insorte tra i confratelli ed il parroco, nel 1670 i primi decidono di spostarle e di metterle nello spogliatoio antistante l'oratorio della Compagnia, appositamente trasformato in cappella di Sant’Aurelio. Nel 1671/1672 l'altare di legno ivi esistente (documentatoci dal 1651) è traslato in avanti, per consentire l'inserimento delle reliquie tra la parete tergale e la mensa dell'altare stesso. I lavori si concludono attorno al 1673 con la realizzazione del soffitto a finta volta a padiglione unghiato di copertura del vano, recante peducci in legno, di sapore ancora cinquecentesco.
1684 (opere pittoriche compagnia)
Nel 1684 lavora per la Compagnia il pittore Giovanni Rocchi, che esegue alcune "fabriche di pittura" degli apparati predisposti in occasione delle Quarantore durante la Pasqua di quell'anno (2 aprile).
1715 - 1719 (crollo della copertura compagnia)
Nel secondo decennio del Settecento (1715 circa) viene collocato il quadro con il “Martirio di Sant’Aurelio” sull'altare della rammentata nuova cappella a lui dedicata, dipinto da Giovan Camillo Sagrestani (1660-1731). Quel decennio si conclude con un evento disastroso, ma che darà lo spunto per un radicale intervento di riqualificazione della Compagnia. Il 13 settembre 1719, infatti, “rovinò con impetuoso furore” una parte del tetto dell'oratorio. Durante il crollo va distrutto "un organo del Signor Luigi Maria Francini ivi portato in occasione della festa di S. Aurelio e di S. Agostino" (ciò che comprova come ancora non vi esistesse un organo stabile). In conseguenza del crollo, è deciso da tutti i confratelli non solo di restaurare l'oratorio, ma anche di ampliare gli ambienti della Compagnia stessa, occupando una parte del terreno posto dietro la parete di fondo verso oriente, dove si trova l’altar maggiore, destinandolo alla nuova sagrestia-spogliatoio dei confratelli.
1720 - 1723 (ricostruzione e ampliamento compagnia)
Il primo cantiere del nuovo oratorio della Compagnia (1720/1723) si apre sotto la sovrintendenza di Francesco Maria Bosi, appartenente ad una famiglia della borghesia imprenditoriale di Legnaia, originaria di Rovezzano, e la prima fase dei lavori d'urgenza si conclude agli inizi del 1722. Nel 1722, quale nuovo soprintendente alla fabbrica, è incaricato Giuseppe Bartolini e, tra il 1722 ed il 1723, si lavora più alacremente alla nuova sagrestia in testata, già ideata nel 1720. Parallelamente ai lavori per quest'ultima, il capomastro Andrea Venturi ristruttura anche l'oratorio stesso, realizzando la copertura a botte della nave, la volta a vela in corrispondenza dell'area presbiteriale, l'arcone della tribuna con i suoi pilastri tuscanici e una cantoria in controfacciata.
1723 - 1724 (decorazione pittorica soffitto compagnia)
Nel 1723/1724 si mette mano alle pitture che avrebbero qualificato i soffitti della sede della Compagnia ed entro il maggio del 1724 Matteo Bonechi (1669/1672-1756) dipinge un “Paradiso” nella volta a vela del presbiterio. Un intervento pittorico di Giuseppe Moriani (noto 1709-1739), un allievo e collaboratore di Giovan Camillo Sagrestani, non verrà invece mai realizzato.
1726 (collocazione reliquie S. Aurelio compagnia)
Il corpo del martire Aurelio, conclusosi i lavori di ridefinizione della Compagnia, è solennemente posto dietro l'altare dell'oratorio nel luglio del 1726. Gli elaborati apparati effimeri in occasione dei festeggiamenti vengono realizzati con il contributo degli abitanti di Legnaia, ma soprattutto per volontà ed a spese dei Bonsi. La progettazione di tali apparati è affidata allo scultore ed architetto Girolamo Ticciati (1676-1744). Ai festeggiamenti, durati più giorni, partecipano pure membri della famiglia granducale.
1727 - 1742 (realizzazione cantoria e organo)
Il parroco Carlo Antonio Francini fa realizzare "l'orchestra di legno", vale a dire la cantoria lignea con l'organo in controfacciata. Di tale organo si sono conservati vari elementi (cassa, canne, meccanica, tiranti dei registri) reimpiegati nel più tardo strumento ottocentesco. In particolare, La cuspide centrale della mostra è realizzata con canne opera forse dell'organaro fiorentino Antonio Felice Parlicini (1668-1742), secondo l'attribuzione di Riccardo Lorenzini del 2013, mentre cinque delle sei canne delle ali sono di fattura diversa. L'organo dovrebbe risalire agli anni compresi tra il 1727 (quando diviene parroco il Francini) ed il 1742 (anno della morte dell'organaro).
1727 - 1780 (cenni storici carattere generale)
Dopo la morte del priore Cappuccini nel 1727, diviene rettore della chiesa Carlo Antonio di Luigi Maria Francini da Legnaia (figlio dell'ex provveditore della Compagnia). Il Francini, che era stato creato protonotario apostolico nella Curia Arcivescovile fiorentina nel 1722, rimane parroco della chiesa fino al 1780. Solamente negli ultimi anni, a causa dell'età, il priore verrà coadiuvato da don Filippo Piccioli (n. 1743), "cappellano curato".
1731 - 1735 (modifiche e decorazioni pittoriche compagnia)
Il secondo cantiere della Compagnia, all'ombra dei Francini oltre che dei Bosi (essendo provveditore Francesco Maria), si apre nel 1731 e riguarda la cappella di Sant'Aurelio e l'oratorio. L'altare della cappella è nuovamente arretrato fino al muro tergale, eliminando lo spazio destinato ad accogliere l'urna delle reliquie (lavoro eseguito dal falegname Filippo Bellini), ed è aperto un nuovo finestrone a campana, posto in mezzo al frontone dell'altare. Anton Domenico Giarrè (noto 1729-1760), esegue le due figure allegoriche di lato all'altare stesso (La Fede e La Speranza) e la mostra attorno al portale di accesso all'aula dell'oratorio. Gli interventi nell'ex cappella di Sant'Aurelio sono pagati dai benefattori, quelli contemporanei, inerenti ulteriori lavori e decorazioni all'oratorio, dai confratelli. In tale occasione, le tre lunette sottostanti la volta a vela della tribuna sono decorate dal Giarrè con quadrature architettoniche.
1741 - 1743 (lavori campanile)
Negli anni 1741/1743 dobbiamo al parroco Francini alcuni lavori al campanile della chiesa di Sant'Angelo, campanile che risulta ancora in quegli anni con la torre campanaria non ultimata e con varie lesioni strutturali. Abbiamo notizia, infatti, di alcuni lavori al vecchio campanile, opere che portarono anche ad un contenzioso tra il parroco e i confratelli della Compagnia di Sant'Agostino, che erano stati chiamati in causa dal priore per partecipare ai "risarcimenti" necessari. Allora la chiesa di Sant'Angelo possiede le due case "unite insieme" poste immediatamente ad Occidente e oggi non più esistenti, essendo andate demolite in occasione dei grandi lavori degli Anni Ottanta del Novecento.
1759 (affrescatura della volta compagnia)
Il terzo cantiere dela Compagnia si apre nel 1759, quando è camerlengo Benedetto Alessandro Bosi, ed i nuovi lavori si concentrano nell'ultimazione delle decorazioni nella tribuna, nell'affrescatura della volta della nave e nella creazione di una nuova orchestra in controfacciata. Giovan Domenico Ferretti (1692-1768), prolifico artista, all'apice della sua notorietà, dipinge la volta dell'oratorio con uno sfondato raffigurante la “Gloria di Sant’Agostino e Sant’Aurelio”. La pittura viene inquadrata da una cornice polilobata dipinta in trompe l’oeil, a sua volta attorniata da una serie di decorazioni architettoniche, opera prima (a noi nota) del quadraturista Piero Giarrè (m. post 1791), forse figlio del precitato Anton Domenico.
1760 - 1761 (altare e decorazioni a stucco compagnia)
L'ultimo cantiere della Compagnia porta a conclusione l'altare dell'oratorio e le decorazioni in stucco della tribuna. Nel 1760 si pianifica la ricostruzione dell'altare, così come era stato deciso il giorno di Natale del 1759. Preposto alla nuova 'fabbrica' è Benedetto Alessandro Bosi, insieme a Giovanni Evangelista Francolini. Gli stucchi vanno riferiti, per la loro composizione architettonica, ad un maestro ancora debitore degli architetti di formazione fogginiana Bernardino Ciurini (1695-1752) e Pietro Paolo Giovannozzi (1658 circa - 1734) e, per la plastica, degli stuccatori ticinesi operanti a Firenze fin dal Seicento. In particolare, sono attribuibili a Bartolomeo di Antonio Portugalli (1700 circa - 1778), membro di una delle più note botteghe di stuccatori dell'epoca.
1782 - 1785 (ristrutturazione complessiva chiesa)
ra il 1782 e il 1785 la ristrutturazione della chiesa è promossa dal parroco Filippo Piccioli e forse viene diretta dall'ingegnere granducale Anastasio Anastagi (ampliamento della canonica, prolungamento della nave verso Occidente e sua copertura con un soffitto incannucciato a finta volta a botte, nuovo piccolo portico antistante la facciata).
1785 - 1792 (cenni storici compagnia)
Il 21 marzo 1785, Pietro Leopoldo, con Motu Proprio emanato in quel giorno, sopprime, insieme alle altre, anche la Compagnia di Legnaia, che poi, Il 2 luglio 1792, per volontà di Ferdinando III, dopo la morte di Pietro Leopoldo, viene ripristinata come "Compagnia del SS. Sacramento sotto il titolo di S. Agostino".
1815 - 1837 (lavori complessivi chiesa)
Con la Restaurazione diviene parroco Leopoldo Carli (rimarrà a Legnaia fino al 1837), al quale dobbiamo una vasta campagna di lavori: il pulpito e l'altar maggiore "isolato e chiuso intorno all'arco con dei pietrami fabbricati dal priore"; la cotrosoffittatura a volta è "dipinta e ornata [...] con il S. Titolare [San Michele Arcangelo] dipinto in un ovato a fresco, che costò al detto priore scudi 480, comprese le pitture di tutta la Chiesa e frontoni degli Altari". Lateralmente si trovano due altari, uno per lato: quello del SS. Crocifisso, con "un imbasamento di legno lavorato e di nuovo rifatto dal prior Carli, entrovi la tavola [sic!] del SS. Crocifisso con alcuni Santi opera del Curradi", l'altro, posto lungo la parete destra, dedicato al SS. Rosario, con "un imbasamento di legno simile all'altro del SS. Crocifisso e rifatto dal Prior Carli, entro la tavola [sic!] di Maria SS. del Rosario".
1820 - 1850 (rifacimento organo chiesa - cantoria)
Tra gli anni Venti dell'Ottocento ed il 1850 (verosimilmente entro il 1837, anno della morte del parroco Carli) è rifatto l'organo reimpiegando parte del precedente settecentesco, eseguito dell'organaro Michelangelo Paoli (1777-1854), secondo quanto accertato da Riccardo Lorenzini ("pur non essendo firmato, le caratteristiche costruttive ne rendono esplicita la paternità"), e non dalla ditta Agati, che dovrebbe essere autrice invece dell'organo della Compagnia attorno al 1844.
1844 (restauro compagnia)
Nel 1844, al tempo del parroco Carlo Nuti e dei confratelli della famiglia Giorgi, avviene il restauro della Compagnia di Sant'Agostino o del SS. Sacramento: parziale ridipintura della pittura murale del Ferretti; intero rifacimento della quadratura in forme legate al Classicismo della Restaurazione. Di lato all'organo sono inserite due panoplie dipinte di strumenti e spartiti musicali con rami d'alloro, mentre il parapetto della cantoria è decorato con foglie e tralci d'acanto e, al centro, un'iscrizione ("a gloria di Dio, e di Maria SS. / in onore del loro padre S. Agostino, e delle SS. Reliquie / di Aurelio martire / i fratelli di questa venerabil Compagnia / questo medesimo anno la ristauravano [sic!] ed adornavano / mdcccxliv"). Anche il vestibolo antistante l'oratorio è ridipinto secondo cromie neorinascimentali e l'altare è tinteggiato color pietra serena; al posto delle due statue raffigurate lateralmente dal Giarrè sono dipinte candelabre neoclassiche.
1868 - 1869 (ampliamento cancello di accesso intorno sagrato)
Nel 1868 don Luigi di Andrea Botticelli (parroco dal 1849 al 1894) chiede al Sindaco di Firenze di poter ampliare il cancello di accesso al sagrato della chiesa per consentire ai carri funebri di entrarvi ed avvicinarsi così alla stanza mortuaria posta a ridosso della Compagnia. La perizia di tali lavori è redatta il 30 settembre 1968 dall'ingegner Fortunato Veneziani (m. post 1881) e la Giunta Comunale li approva il 14 aprile 1869.
1875 - 1899 (realizzazione pitture murali compagnia)
Nell'ultimo quarto dell'Ottocento sono ridipinte le due lunette nel presbiterio della Compagnia, con raffigurazioni de “La Fede” e “La Speranza”, poste al di sopra delle quadrature architettoniche settecentesche. La Fede sarebbe iconograficamente derivata dalla nota statua “La libertà poetica”, ideata e realizzata da Pio Fedi (1816-1892) per il monumento al drammaturgo Giovan Battista Niccolini in Santa Croce a partire dal 1872 (in particolare, rimanderebbero a tale prototipo la corona di raggi ed il braccio destro sollevato).
1884 - 1885 (completamento del campanile campanile)
Negli anni 1884/1885 don Botticelli edifica (o meglio, completa) il campanile a torre. Le opere si concludono il 16 agosto 1885 con la benedizione da parte dell'arcivescovo di Firenze, Eugenio Cecconi (1834-1888), delle nuove tre campane grosse (dedicate a San Michele Arcangelo, a San Giovanni Battista e la terza denominata Olimpia in riconoscenza verso la benefattrice, Olimpia, moglie di Raffaele Bini), rifuse dalla ditta Emilio Rafanelli di Pistoia.
1895 (restauro coperture)
Nel 1895 il parroco, Raffaello di Giuseppe Cardini da San Colombano a Settimo (n. 1867), fa restaurare le coperture di chiesa.
1901 - 1904 (realizzazione locali parrocchiali)
Nel 1902 è fondato il Circolo Cattolico della Gioventù, composto per lo più da membri della Congregazione di San Giuseppe di Legnaia, e trova sede nell’ex stalla e rimessa di attrezzi della canonica, ristrutturata in sala fin dal 1901 (un ambiente ricavato nell'ex chiostro medievale). Nel 1904, essendo aumentato il numero degli iscritti, viene deciso di realizzare una nuova sede su un terreno assegnato al colono della chiesa, vicino alla stanza mortuaria, sede costituita dall’ingresso, dalla stanza per il gioco, da una sala e da un teatro. L’ambiente è inaugurato nel maggio di quell’anno.
1923 (cenni storici compagnia)
Nel 1923 è soppressa la Compagnia del SS. Sacramento.
1929 (progetto di ampliamento - non realizzato chiesa)
Nel 1929 il parroco Armando di Luigi Chiarugi da Sammontana incarica l'ingegnere spezzino Raffaello Niccoli (1897-1977), funzionario della Soprintendenza, di eseguire un progetto di ristrutturazione ed ampliamento della chiesa. Il progetto, datato 24 luglio 1929, prevede il prolungamento della navata, demolendo la facciata ed occupando l'"atrio" settecentesco. L'arco di quest'ultimo, rivolto in direzione della strada, avrebbe dovuto essere tamponato e si sarebbe dovuta realizzare al suo interno una nuova porta di accesso alla chiesa, il cui portale è previsto in stile settecentesco. Tale progetto, però, pur approvato dal Comune il 3 agosto 1929, non è realizzato.
1930 - 1931 (ristrutturazione in forme neoquattrocentesche chiesa)
Nel 1930/1931 la chiesa viene ristrutturata in forme latamente neoquattrocentesche. Demoliti l’altar maggiore ligneo e i due altari laterali, è distrutta la controsoffittatura a volta settecentesca con le pitture ottocentesche, ponendo nuovamente in luce le capriate. Il nuovo altar maggiore in marmo proviene dalla chiesa di Orsanmichele, per concessione del soprintendente Giovanni Poggi; i due altari laterali sono conformati ad esso, realizzandoli in finta pietra serena. Lungo le pareti longitudinali sono create quattro nicchie, che accolgono le statue della Vergine Addolorata, di Gesù Nazareno, della Divina Pastora e di Sant’Antonio da Padova. Le stazioni della Via Crucis sono plasmate in terracotta da Edoardo Rossi. La cantoria è demolita e sostituita con una in muratura e viene restaurato l'organo da un esponente della famiglia Paoli di Campi Bisenzio.
1944 (cenni storici carattere generale)
Nel 1944 gli ambienti parrocchiali sono occupati dalle truppe canadesi.
1953 (realizzazione locali parrocchiali)
Nel 1953 è realizzato il nuovo locale per le riunioni dell’Azione Cattolica presso la canonica e la cappella di San Giuseppe nell'ex portico del vecchio chiostro viene contestualmente trasformata in una sala per la ricreazione dei più piccoli.
1971 - 1989 (rifacimento pavimento e modifiche altari chiesa)
Tra gli Anni Settanta e gli Anni Ottanta è rifatta la pavimentazione di chiesa, sono eliminate le mense degli altari laterali e l’altare maggiore, proveniente da Orsanmichele e che era addossato alla parete tergale dell’abside, viene rimosso e distrutto.
1998 (vicende conservative opera pittorica)
Nel 1998 è restaurata la pala di Francesco Curradi con “San Michele Arcangelo”, il primo di una lunga serie di restauri, sia alle opere artistiche mobili sia alle strutture architettoniche, promossi dalla sensibilità di Don Moreno Bucalossi (n. 1962), parroco dal 1996 al 2016.
2000 - 2008 (vicende conservative opere pittoriche - varie collocazioni)
Nel 2000 torna nell’edificio sacro di Legnaia la “Crocifissione” del Curradi, che era stata precedentemente collocata nei depositi di Palazzo Pitti. Nel marzo del 2008, sono concesse dalla Soprintendenza in uso perpetuo due tele: un’”Adorazione dei Magi” (opera restaurata, ma assai compromessa, proveniente dal deposito del Rondò di Bacco a Palazzo Pitti) ed un “Martirio di San Bartolomeo”, databile ai primi anni Venti del Settecento, del pistoiese Pietro Marchesini, detto l'Ortolanino (1692-1757), proveniente da Pistoia, ma allora nei depositi statali di opere d'arte ed appena restaurato (2007).
2009 - 2011 (vicende conservative presbiterio - trittico)
Nel 2009 è restaurato il trittico di Mariotto di Nardo, che viene ricollocato nella parete destra del presbiterio in chiesa nel gennaio del 2011. Questa tavola aveva subito vari interventi di consolidamento e di restauro già precedentemente (nel 1935, cioè dopo la ristrutturazione della chiesa, nel 1951 e nel 1976), ma tutti antecedenti al 1992, quando era stata trafugata e poi ritrovata.
2010 - 2011 (vicende conservative opere pittoriche - varie collocazioni)
Nel 2010 e nel 2011 sono restaurati l’”Annunciazione” di Bicci di Lorenzo, la “Crocifissione” del Curradi ed “il Martirio di Sant’Aurelio” di Giovan Camillo Sagrestani. Viene anche ripresa dal deposito presso il Museo Diocesano di Santo Stefano al Ponte – insieme ad un “Christus Patiens” primo-quattrocentesco e all'”Annunciazione” di Bicci di Lorenzo – la tavola del Maestro del Tondo Borghese e risistemata sopra la cantoria dell’oratorio della Compagnia, oratorio che nel 2010/2011 è interamente restaurato, sotto la direzione degli architetti Giovanna Giuntini (n. 1956) e Stefania Salomone (n. 1955) e sotto la supervisione della Soprintendenza.
2014 - 2015 (restaurato Crocifisso cappella di S. Aurelio)
Nel 2014/2015 è restaurato il “Crocifisso” in legno di pioppo già di pertinenza della Compagnia ed in seguito è ricollocato nella cappella di S. Aurelio.
2017 (adeguamento liturgico presbiterio)
I fini dell’adeguamento liturgico, nel 2017 sono collocati in chiesa l’altare ed il tabernacolo in marmo di Pietrasanta, provenienti da una chiesa di Empoli e con la mensa posta su quattro colonne tornite in marmo. Contestualmente è stata realizzata la decorazione pittorica che definisce le mostre dell’arco trionfale. Il tabernacolo viene collocato al centro dell’abside, inserito in una struttura che un tempo era parte del dossale ed oggi è articolata in verticale con nove riquadri in marmo rosso.

1. La via Pisana tra il porto fluviale di Verzaia ed il Pian di Legnaia

L’area di pianura, all’interno del territorio sudoccidentale fiorentino, è attraversata dall’antichissimo tracciato della via Pisana, con i suoi borghi lungo-strada, originariamente caratterizzati, in prevalenza, da case a schiera con botteghe al pianterreno.

Tale arteria, di origine etrusca (porzione di un antichissimo percorso collegante Pisa sul Tirreno con Spina sull'Adriatico), costituì un asse fondamentale per la posteriore colonizzazione e centuriazione della zona in età romana, ancor prima della fondazione di Florentia. È ipoteticamente possibile – sebbene non vi siano prove documentarie in merito – che il tracciato di questa strada non seguisse l’amplia flessione verso Sudovest che tuttora la caratterizza nel tratto compreso tra Monticelli e Lastra a Signa, ma fosse maggiormente spostata verso Settentrione (quindi in un’area più prossima alla sponda sinistra dell’Arno). In tal caso avrebbe seguito un percorso sostanzialmente rettilineo, almeno nel tratto orientale fino all’attuale zona delle Torri a Cintoia e all'attraversamento della Greve, per poi flettere verso Sudovest, in direzione appunto di Lastra a Signa, passando dalle aree immediatamente a Settentrione dell'odierno Ponte a Greve, dove attualmente sorge il moderno edificio del Centro Commerciale Coop. In corrispondenza di tale struttura sono tornati alla luce, infatti, i resti di una necropoli ad incinerazione e ad inumazione, che fu attiva tra il I secolo a. C. ed il V d. C. e che si doveva verosimilmente sviluppare in aderenza ad un tracciato viario di una qualche importanza. Anche se di questo presunto tracciato più settentrionale, come si è detto, non vi è nessuna prova oggettiva, né tantomeno un inoppugnabile ritrovamento archeologico che lo comprovi (durante i lavori di restauro alla villa delle Torri Capponi-Vogel, ad esempio, non sono tornati alla luce elementi architettonici anteriori al XIII secolo, questa ipotesi sarebbe potuta essere plausibile in età romana in quanto è verosimile che in tale epoca, come già sosteneva Mario Lopes Pegna nel 1974, sia stata realizzata tutta una serie di canali di drenaggio, resi indispensabili dalla forte tendenza all’impaludamento di questi terreni presso il fiume, soggetti a inondazioni, costituendo essi il naturale bacino di espansione dell’alveo fluviale. Del resto, i Romani erano notoriamente esperti in tali opere idrauliche. L’ampia e fertile pianura sudoccidentale (regio dexstrata citrata) fu oggetto di una rigorosa centuriazione che ancor oggi è documentata dalla maglia di strade tra loro perpendicolari già delimitanti le centuriae e da vari toponimi, come Cintoia stessa (centuria). Luogo di intensa attività agricola – in particolar modo cerealicola – e di commercio, la zona vide il sorgere di ben organizzati praedia rustica, cioè fondi poderali con fattorie.

Solamente in seguito, con l'abbandono della manutenzione idrica ed il conseguente nuovo impaludamento in età tardo-antica e soprattutto altomedievale, certamente presente oramai nel V secolo d. C., i terreni furono nuovamente soggetti a inondazioni e la via per Pisa - o quel che ne restava - passava sicuramente lungo il tracciato odierno, perimetrando le zone maggiormente paludose ad Ovest del porto d'Arno a Verzaia, nelle quali andò a trovarsi comunque anche ilportusstesso, di cui riparleremo nei paragrafi seguenti. Ma anche la strada per Pisa andò ben presto in rovina e non fu più carrareccia (cioè percorribile regolarmente da carri) tra il IV ed il V secolo.

La strada consolare diretta a Pisa, principiando da Florentia, ad capitem pontis (ponte posto poco più a monte dell'attuale Ponte Vecchio), aveva la sua prima lapis ubicata ad Viridaria, presso i frutteti e gli orti verdeggianti di Verzaia e presso il loro portus, non distante dall’insediamento di pescatori lungo l’Arno che in seguito darà origine al sobborgo e al porto del Pignone. La seconda pietra miliare era all'incirca in corrispondenza di quello che sarà il borgo pedecollinare di Monticelli. Certamente in età alto-medievale il tertius ab urbe lapis si trovava presso il borghetto di San Quirico, ai margini delle vaste boscaglie lungofiume, dove poi sorgerà l' ecclesia Sanctorum Quirici et Julittae de Lignarja.

Con il nome di Monticelli, originariamente, si indicava non solo la zona bassa attorno all’incrocio tra la via per Pisa e quella per Soffiano (memoria di un praedium Sufii), ma anche l’area maggiormente elevata del Boschetto, fino a lambire l’odierno colle di Monteoliveto (Monte di Bene), in ‘antitesi’ con la sottostante piana di Verzaia-Legnaia.
Evidentemente il toponimo deriva da monticelli, monticuli, ma la natura di tali ‘monticelli’ non è ancora così evidente come potrebbe immediatamente apparire. Tale denominazione, infatti, potrebbe teoricamente non riferirsi in modo generico alle ultime propaggini delle colline a Sud della pianura dell’Arno e protraentisi come un 'cuneo' petrigno verso il fiume (ricoperte in origine di boschi di castagno), ma a dei rilievi artificiali (orograficamente una sorta di ‘mammelloni’ selvosi), collegati ad un'ipotetica presenza di tombe etrusche del VII secolo a. C.: tombe a dromos con celle laterali e un tholos a falsa cupola. Comunque, ciò resta per il momento solo un'ipotesi non suffragata da prove esaustive.

È possibile, sebbene pure in tal caso a tutt'oggi non vi sia alcuna prova documentaria - né a carattere di testimonianza letteraria, né archeologica - che in epoca romana (forse in età adrianea), come si è detto, esistesse un porto posto ad Occidente di Florentia, forse più esteso rispetto a quello che in seguito sarà il porto 'lineare' settecentesco del Pignone, prolungandosi maggiormente verso Ovest.

Come sappiamo, infatti, l'originario e documentato porticciolo di Florentia era ubicato a monte del ponte sull'Arno (all'altezza dell'odierna piazza Mentana), quindi interdetto alle imbarcazioni di maggior dimensione che non potevano passare al di sotto del ponte medesimo, inizialmente a travata lignea, poi ricostruito ad archi in muratura durante l'età imperiale ed ubicato immediatamente a monte dell'odierno Ponte Vecchio. Quello commerciale più rilevante d'età imperiale e, come si è detto, segnatamente adrianea, però, doveva trovarsi a monte dell'originaria confluenza del Mugnone in Arno, ma presso l'opposta sponda sinistra meridionale, a ridosso della strada proveniente da Pisa e ai piedi del rilievo petrigno e selvoso di Monteoliveto-Monticelli, che, come si è detto, creava naturalmente un cuneo roccioso in direzione del fiume, influendone il percorso e facilitando la formazione di un sinusimmediatamente a monte di esso e da esso riparato. Il sistema di insenature, nelle quali forse avrebbe potuto trovarsi anche il presunto portus (ancora non indagato né - ripetiamo - certamente provato dalla moderna storiografia), doveva ipoteticamente occupare l'area dell'Isolotto fino all'alveo meridionale dell'Arno, oggi scomparso ma esistente ancora agli inizi del Cinquecento, costituendo l'originaria sponda meridionale di tali insenature. La larghezza del fiume era minima là dove era stato costruito il primo ponte fiorentino, ma era massima proprio immediatamente prima e dopo la 'strozzatura' provocata dal promontorio di Monteoliveto-Monticelli, dove l'alveo si espandeva ad 'imbuto' fino alla confluenza del Terzolle suIl'opposta sponda, occupando l'area delle Cascine e formando forse fin da allora un'insula mediana, emergente nei periodi di secca (le future Cascine dell'Isola). I sarcofagi d'età Tardo Antica - uno rinvenuto nel 1740, un secondo e parte di un terzo ritrovati all'altezza del ponte alla Vittoria presso il greto d'Arno all'altezza del ponte alla Vittoria nel 1933 - facevano forse parte di una necropoli posta tra il porto e la via Pisana oppure erano caduti in acqua durante le fasi di scarico da una nave proveniente dal porto di Pisa (ubicato nell'odierna zona settentrionale di Livorno).

Nel X secolo i Cadolingi (consorti degli Alberti di Prato, degli Ubaldini di Mugello e dei Guidi di Casentino), signori di Pistoia (i loro più antichi possessi familiari si trovavano attorno a Pistoia e nella media e alta valle dell’Ombrone pistoiese) e conti di Fucecchio e Borgonuovo, controllavano un lungo tratto della via Francigena, la più importante strada medioevale della Toscana, percorsa allora da pellegrini e da eserciti, che, passando per Lucca e per Siena, andava fino a Roma. I Cadolingi dominavano, infatti, la zona ad Ovest di Pistoia, comprendente la via Francigena - passante attraverso la desolata e paludosa zona tra Altopascio a Nordovest e Fucecchio a Sudest. Tale zona comprendeva anche Pescia, Cappiano (tra Altopascio e Fucecchio) e il punto in cui la rammentata strada scavalcava l'Arno (Arne Blanca) nei pressi del colle di Fucecchio mediante il pons Bonifilii (o pons Vicicculi o de Ficecclo), dove si trovava il "portus vel navigium Arni", il porto dell'Arno, ad quem si innalzava la curtis cadolingia di Borgo Nuovo e l'oratorio - poi primo monastero cadolingio - dedicato a San Salvatore (fondato nell'ultimo quarto del X secolo da Cadolo, poco prima della sua morte, e poi ampliato dal figlio Lotario).

Quando, nel secolo XI, ai tempi del conte Guglielmo detto Bulgaro figlio di Lotario (documentato dal 1034 al 1073), i Cadolingi subirono a Pistoia una notevole contrazione del loro potere, dovuta al consolidarsi di quello politico vescovile, i conti furono costretti a ricercare altrove le basi della loro signoria, consolidando la loro presenza nella valle dell’Arno verso Est, che divenne uno dei fulcri del loro potere, insieme alla riva volterrana della Val d’Elsa. Ma un’altra zona di consolidamento del loro potere, altrettanto importante dal punto di vista strategico, fu quella compresa fra i due versanti dell’Appennino nelle valli del Bisenzio, della Sieve e del Setta e nella bassa valle della Limentra Orientale.

Fucecchio era il centro di un dominio territoriale quasi unitario che si basava sul controllo delle principali vie d’acqua e di terra e che garantiva ai Cadolingi una posizione chiave in Toscana, la quale sarà la causa di una dura lotta dopo la loro estinzione tra le città vicine (Pisa, Pistoia, Lucca, Volterra e Firenze) e le principali casate feudali (come gli Alberti e i Guidi) per assicurarsi il controllo della ricca e strategica eredità.

La "terra kadulinga" si estendeva, quindi, anche nella valle dell'Arno ad Est della Francigena e di Fucecchio e nell'XI secolo comprendeva pure tutta la zona fino a Scandicci, inclusa quella pianeggiante ad Occidente e a Oriente della Greve, area gravitante attorno ad un importante secondo ramo della Francigena stessa e ad un suo diverticolo. Questo ramo, lungo il quale i Cadolingi sono parimenti presenti dalla seconda metà del secolo X, fino a interessare gradualmente il versante Nord dell’Appennino, aveva un andamento all'incirca Nord-Sud, proveniva da Bologna - via Castiglion de' Pepoli, Vernio (che poi dai Cadolingi passerà agli Alberti, legati da consorterie ai Cadolingi) e la Valle del Bisenzio - proseguiva per Prato (controllato dai conti Alberi) e Signa, attraversava l'Arno mediante un guado e poi con un ponte all'altezza del Porto di Mezzo presso Lastra a Signa (sempre in mano ai Cadolingi), continuava attraverso Gangalandi (dove era il vicino castello cadolingio di Monte Orlandi), Sant'Ilario (con l'altro castello cadolingio di Montecascioli), Montegufoni (tenuto dagli Ormanni), Lucardo (nel 998 in mano a Lotario de' Cadolingi) e Sant'Appiano (degli Alberti) e si riuniva al percorso principale all'altezza di Poggibonsi. Su tale secondo ramo viario, a sua volta, si innestava un diverticolo altrettanto fondamentale (quello che, poi, a noi maggiormente interessa), proveniente sempre da Bologna - ma via Cercina, Careggi, Cassia Vetus, raccordo con la Cassia Nova, ponte di Firenze, via Pisana - e che passava per Verzaia (con il suo piccolo ma importante portus o scalo fluviale per chi giungeva da Pisa), per poi flettere leggermente verso Sudovest, lambire con percorso pedecollinare il rilievo di Monteoliveto e Monticelli (prominenze scoscese costituite prevalentemente di pietraforte, scarsamente abitate e ricoperte da una fitta vegetazione costituente l'antico bosco del Castagno o di Cafaggio) e proseguire per la Volta a Legnaia, distaccandosi infine dal tracciato della Pisana per proseguire in direzione di Scandicci, San Martino alla Palma (cosiddetto dal transito dei ‘palmieri’ di ritorno da Gerusalemme), Mosciano, La Romola e Cerbaia e riconnettersi al precedente ramo all'altezza di Montegufoni. A Monticelli era sorto il monastero benedetti­no di San Pietro, posto esattamente all'incrocio tra la via Pisana e quella per Soffiano, cui era annesso anche un hospitium ed attorno al quale si era formato un borghetto lineare. Tale importante polo religioso è documento per la prima volta nel 1051 ed era soggetto alla potente badia di Sant’Antimo nel Senese.

Dalla Pisana, all'altezza di a Verzaia, si distaccava un ulteriore diverticolo, presso il cimitero ebraico: saliva tra il Monte di Bene (monte di Benualdo, colle di Monteoliveto) e quello del Santo Sepolcro (dove era una mansio templare), proseguiva per Bellosguardo, scendeva sotto Soffiano e, attraverso la via di Guardavia, si reinnestava nella strada per Scandicci all'altezza del Lastrico.

A Lotario di Cadolo, signore del vicino castello di Montecascioli, in strategica posizione dominante la via Pisana - dobbiamo, sul volgere del X secolo, la fondazione del monastero di San Salvatore a Settimo (là dove era un oratorio creato dal padre Cadolo nel 963, in seguito ad una concessione feudale da parte di Ottone Magno nel 963, sul luogo di un precedente nucleo religioso dell’VIII secolo), in strategica posizione mediana tra il porto di Lastra a Signa e i rammentati diverticoli orientali della via romea.

La zona della Greve-Legnaia, agli estremi confini orientali dei possedimenti Cadolingi nel Valdarno Inferiore e quasi a lambire Firenze, fu loro nuovamente confermata da Enrico III nel 1046, ai tempi del predetto Guglielmo detto Bulgaro, figlio di Lotario, ed era retta mediante alcuni vicecomites (come i Nerli, il cui primo visconte locale, Sichelmo di Anselmo detto Morello, ci è noto nel 1049). Al "magnus comes" Uguccione di Guglielmo, che morirà nel 1096, e ai loro visconti (a Nerlo di Segnorello di Ridolfo di Ildebrando di Leone, originario di Montecascioli e noto dal 1079) dobbiamo anche la creazione, nel 1083, sempre oltre la Greve, del monastero benedettino delle potenti “abbadesse” di Santa Maria a Mantignano, indipendenti dal vescovo di Firenze e dipendenti direttamente dalla sede apostolica di Roma, ma, in realtà, così volute dai Cadolingi proprio per svincolarsi dal potere vescovile fiorentino filopapale e divenire un instrumentum imperiale di controllo sul territorio in funzione antiurbana e antifiorentina (Uguccione si era schierato, infatti, contro la contessa Matilde dei Canossa, dalla parte dell'imperatore Enrico IV e, sebbene non fosse mai stato suo amico, di quella del vescovo 'traditore' di Lucca Pietro, partigiano dell'imperatore, che nel 1081 era stato imposto a Lucca al posto del vescovo filopapale Anselmo da Enrico IV con l'ausilio di Uguccione). Mantignano costituiva, quindi, un pericoloso avamposto contro Firenze.

In origine (X-XI secolo), come si è detto, anche la zona ad Oriente della Greve e che aveva il suo asse fondamentale Est-Ovest nella vecchia via Pisana, era in mano ai Cadolingi. Pure la zona di Legnaia fu inizialmente legata alla nobiltà ghibellina, estremo 'avamposto' contro Firenze ed il suo porto occidentale sull'Arno a Verzaia.

Proprio da Legnaia si distaccava l'asse stradale costituente l'altro rammentato diverticolo della via Francigena che, diramandosi dalla Pisana alla "Volta a Legnaia", proseguiva verso l'importante rocca cadolingia di Scandicci Alto- dove comproverebbe tale tracciato la presenza della chiesa dedicata a San Martino vescovo di Tour- il castello sempre dei Cadolingi a Mosciano e quindi si riuniva al tracciato fondamentale della Francigena passante per Certaldo, San Gimignano e Siena.

Il principale 'palagio' fortificato dei Nerli (che poi passeranno prevalentemente alla parte guelfa) si trovava immediatamente ad Oriente della Greve, lungo la sua sponda destra, lungo l'attuale via delle Bagnese, in strategica posizione elevata (vis-à-vis rispetto al castello di Scandicci, a sinistra della Greve) e dominante la piana e la sottostante arteria viaria predetta, ed era noto anche come castello di Farneto del Poggio o Nerlaia, con un perimetro murario di circa duecentocinquanta metri. Vicino alla Nerlaia e sempre dei Nerli almeno fino dal Trecento, ma più a valle, era l'altro 'palagio' fortificato e turrito di Fezzano detto anche Il Cantone (poi villa dei Galli Tassi o Torre Galli), presso il fondamentale ponte mediante il quale la strategica e trafficata strada attraversava la Greve.

Soffiano costituiva un altro punto strategico sulle colline maggiormente ad Oriente rispetto alla Nerlaia, sempre a difesa della sottostante Greve e soprattutto della strada: un castellare munito di possenti torri dei Lambardi o Cattani (cioè 'capitani') di Soffiano, famiglia di origine germanica, facente parte, come i Nerli, della consorteria dei Cadolingi, dei quali erano vassalli. Non distante dal castello di Soffiano si trovava il monastero di agostiniane di San Salvatore, documentatoci a partire dal 1288, fondato dai Lambardi, sulla falsariga della politica intrapresa dai Cadolingi e dai Nerli con le rammentate badie di San Salvatore a Settimo e di Santa Maria a Mantignano e, in generale, dei signori ghibellini del contado che in tal modo cercavano di arginare il potere vescovile fiorentino.

Una seconda arteria, diramantesi dalla via Pisana all'altezza della chiesa di Monticelli, lambiva con percorso pedecollinare il rilievo di Soffiano e si immetteva nella strada predetta per Scandicci: non a caso era denominata via di Guardavia.

Quando i Fiorentini, con la capillare espansione nel contado a principiare dal XII secolo (dopo l'estinzione dei Cadolingi nel 1113 e l'inizio delle lotte per l'ottenimento dei loro territori nelle quali si inserirono l'imperatore, i Guidi, gli Alberti e i vari vicecomites locali), crearono strutture difensive (Palagi "atti" a fortezza) che dovevano contrastare i signori ghibellini, le affidarono a famiglie di certa fede guelfa, che 'colonizzassero' la zona, inizialmente quella ad Oriente della Greve, che divenne nuovamente lo strategico limes, cioè il confine, tra le terre al Occidente ancora sottomesse all'antica nobiltà feudale ghibellina e quelle al Oriente oramai gravitanti attorno al libero Comune mercantile di Firenze.

I Fiorentini, nel corso dei secoli XII-XIII, crearono un sistema di palagi-fortezza che difendevano il

limes

predetto verso Ovest e tale 'prima linea' continuava verso Sud, proteggendo, così, con un andamento a 'sacca' il porto di Verzaia, Monticelli, il fertile Pian di Legnaia e la viabilità predetta. Iniziando dal Palagio delle Torri dato ai Capponi (poi Villa delle Torri o Villa Vogel), il sistema difensivo proseguiva lungo la rammentata arteria per Scandicci con la rocca di Legnaia (della quale riparleremo nel capitolo seguente), posta quasi all'incrocio con la via Pisana, presso la Volta, ed in mano ai guelfi Orciolini, e quindi, all’altezza dell’Olivuzzo, con il Carduccio, il principale dei ‘palagi’ fortificati dei Carducci, famiglia guelfa discendente dai Buonamici. Volgendo verso Est, in via di Guardavia, ai piedi delle colline di Soffiano, a contrastare il sovrastante castello dei Lambardi prima del suo assoggettamento (passando agli Squarciasacchi e agli Strozzi), si trovava il palazzo fortificato detto appunto di Guardavia e sempre dei Carducci (poi villa dei Pandolfini o Il Fornacione), quindi era il ‘palagio’ detto anch'esso di Guardavia, dei Mei, famiglia che aveva le proprie case in città nel Quartiere di Santo Spirito, Gonfaloni della Ferza e del Drago. Infine, sulle colline a Oriente, in posizione dominante, erano il ‘palagio’ fortificato dei Soderini (in seguito villa dei Martelli), famiglia fattasi guelfa, proveniente da Gangalandi (castellare verso Lastra a Signa in mano all'omonima famiglia consorte dei Cadolingi), e l'altro detto Lo Scarlatto, degli Scarlatti a Monticelli (poi villa Strozzi al Boschetto), famiglia proveniente da Castelfiorentino e che aveva le proprie case anch'essa nel Quartiere di Santo Spirito, Gonfalone del Drago.

A Monticelli, nel Piano di Legnaia, nel Mille, secondo la storiografia, già esisteva un porto fluviale, che iniziava all'incirca da dove sorgerà poi il borgo di pescatori, barrocciai e "navaioli" del Pignone. Il 4 novembre 1040, infatti, il canonico Rolando, figlio di Gottifredo e nipote di Rodilando, "illustre per la pietà, e di grande stima, e fama", divenuto preposto del Capitolo fiorentino nel 1038 al posto di Rozzone, avrebbe donato la sesta parte del portus Arni ad Monticellum, con della terra annessavi, alla pieve di Santa Reparata, per l'erezione di un nuovo altare all'interno della pieve stessa, dedicato a San Giovanni Evangelista. Questo, secondo la lettura che fece della pergamena il letterato ed erudito don Ippolito Camici (1730 circa - post 1789) nel Settecento, che aveva proseguito e pubblicato entro il 1789 la Serie degli antichi duchi, e marchesi di Toscana iniziata a editare da Cosimo Della Rena (1615-1696) nel 1690. Poi, ad iniziare da Emanuele Repetti, che nell'Ottocento divulgò nella sua opera l'affermazione del Camici, tutta la posteriore storiografia del Novecento ha ripetuto come certa tale esistenza, semmai cercando vanamente altre conferme e ipotizzando l'ubicazione e la grandezza ed importanza di tale misterioso porto.

Ciò, nonostante che Renato Piattoli già nel 1930 avesse pubblicato la pergamena in questione, dove chiaramente si evince che il porto di cui si parla non era a Monticelli, ma era quello ad Oriente di Firenze, nel 'popolo' di San Remigio (cioè l'erede del romano portus urbanus o portus orientalis), come riferisce poi anche Emiliano Scampoli nel 2010.

Per chiarezza riportiamo il passo di tale charta offersionis: "[io Rolando intendo] dare et tradere atque offerere [...] super altario dedicato in [h]onore beati Johannis apostoli et evangeliste in civitate Florençiia et in ecclesia Beate Reparate martiris [...] id est [...] integram mea[m] porçione[m] de ecclesia Sancti Remigii cum suas pertinentiias, que est posita prope civitate Florençiia, seo terra et campo illo integro, quem [!] fui [!] genitore meo, que est posito prope ipsa ecclesia, que vocatur Campo Grasi, adque cum sestam [!] porçionem [!], quidem [o: quod est] meam [!] parte, de porto et terra in fluvio Arno, id est campo coiunto, seo tamen infra [o: terris et] rebus meis in loco Vuinciolo et in loco Veraiana [Verzaia] et terris et rebus meis in loco Monticelli et in loco Margnanula et in loco qui dicitur Ala Romola necnon in Viciano et in aliis loci et vocabolis [...], cum sortis et do[m]nicatis, terris et vineis, et cum aedificiis vel universis fabricis eorum vel omnia super se et infra se [h]abentibus".

Pertanto, possiamo dire con ragionevole certezza che nel Mille nella zona di Monticelli non esisteva - o quantomeno non esisteva più - un porto.

Il porto occidentale del Mille, cui dovevano verosimilmente giungere le merci provenienti da Porto Pisano (ubicato dove oggi si trova il porto industriale di Livorno attorno alla Torre del Marzocco, là dove era il precedente porto romano già rammentato), proprio come quello di Pisa, era spostato più ad Oriente (verso Verzaia) e vide verosimilmente giungere le prime comunità giudaico-cristiane (siriache), con necropoli cristiane (si rammenti l'altro sarcofago, rinvenuto sempre all'altezza del ponte alla Vittoria nel 1934) e necropoli giudaiche (poste forse fino da allora all'incrocio tra via Pisana e via di Monteoliveto e là documentate nel Cinquecento). Proprio a causa della rovina già rammentata di strade e di ponti avvenuta fra il IV ed il V secolo e conseguentemente alle invasioni visigotiche, il collegamento con Roma si era fatto maggiormente sicuro per via mare, almeno fino a Porto Pisano, e poi probabilmente risalendo l'Arno fino al porto presso Lastra a Signa e a quello, appunto di Verzaia. Una vivida testimonianza dei percorsi in tale epoca ci rimane nel De reditu suo di Rutilio Namaziano, quando rientrò nella sua Gallia Narbonese nell'inverno del 415 o del 417.

Non è da escludere (sebbene per il momento resti pure questa solo un'ipotesi priva di un supporto documentario) che una primitiva chiesa di Sancta Maria in Viridaria, posta lungo la via carrareccia Pisana all'altezza della trecentesca Porta San Frediano e documentataci ad iniziare dal XII secolo, quando era di patronato dei Bostichi
- proprio come Santo Stefano in Carraia o ai Lupi di Porto Pisano - fosse sorta, sì lungo la direttrice consolare romana ad primum lapidem all'incrocio con il primo cardine minore occidentale della regio dextrata citrata della centuriatio agri, dov'era il vecchio pagus romano, ma forse anche ad portum, su un'area originariamente cimiteriale d'età tardo-antica e paleocristiana, sub divo, cioè sul luogo di inumazione di santi oppure dove si conservava la memoria del passaggio di un santo.

Possiamo immaginare che tale porto, in parte insabbiatosi e diminuito di estensione rispetto a prima per la presenza dei rammentati renai attorno alle varie e sempre più numerose peschiere che avevano creato ampie insulae, avesse mantenuto rilevanza ancora nel XIV secolo, dopo la conclusione dell’ultimo circuito murario, nonostante la forte diminuzione dell'alveo fluviale, e le sue strutture si estendessero da Santa Rosa - dove era stata costruita la peschiera ad moenia nei pressi della vecchia chiesetta di Santa Maria - fino quasi all'attuale piazza Paolo Uccello, forse con un più modesto e trafficato sinus che darà il nome all'odierna via dell'Anconella (tra la Porta San Frediano - la Porta nova de Verzaria - ad Est e l'inizio della stecca settentrionale delle case settecentesche del Pignone ad Ovest). Probabilmente qui nel XIII secolo erano nate le prime associazioni di navicellai locali, dopo la costituzione in Pisa di una loro corporazione generale nel 1218, che aveva lo scopo di salvaguardare gli interessi di tale categoria di lavoratori nel campo del trasporto fluviale in tutte le località toscane dove essi esercitavano la loro professione, compresa la città di Firenze. Non sappiamo se in questo porto medioevale esistessero o meno un “Fundacus” turrito o una “Domus magna” come nel ben più importante Porto Pisano.

Più ad Occidente, via Bronzino, via Palazzo dei Diavoli (già via della Querce o della Quercia, denominata anche via di Bisarno o via di Mezzo) e via dei Mortuli costituivano solamente il perimetro del vecchio e maggiore sinus, oramai ridotto a zona palustre e parzialmente a renai, dove passava il ramo secondario o 'spiga' dell'Arno.

Le originarie case di Verzaia e di Monticelli andranno distrutte con l'assedio cinquecentesco di Firenze, all'infuori di poche strutture, come il 'palagio' fortificato degli Alberti, pur 'scapitozzato'. Il Palagio de' Diavoli, già erroneamente ritenuto dal Carocci l'antica Rocca di Legnaia, al catasto quattrocentesco (1427/1429) risulta essere stato degli eredi di Albertaccio degli Alberti - la famiglia di Leon Battista, cui apparteneva ancora alla fine del Cinquecento - e di aver avuto già allora questo nome popolare. La costruzione fortificata, lungo la sponda del Bisarno, presenta ancora robuste murature in filaretto, con feritoie (tamponate), aperture architravate su mensolette laterali e begli archi in conci di pietraforte a raggiera di ascendenza due-trecentesca. La ‘casa da signore’ fortificata già dei Mannelli più spostata verso Occidente, ai limiti dell’isola di Legnaia o d’Arno e sempre ai margini della sponda del vecchio sinus poi divenuto l'alveo secondario del fiume o Bisarno, era un altro edificio con funzioni anche difensive e di monitoraggio del territorio, risalente almeno al Trecento.

Ad iniziare soprattutto dal Duecento, come si è già detto, il controllo della zona passò gradualmente a famiglie fiorentine di certa fede guelfa, come i Capponi, i Bostichi, i Carducci, gli Agli, gli Orciolini o i Mannelli, che la 'colonizzarono' definitivamente per conto della Repubblica. Così, le rammentate Torri (o Torre dei Capponi) era un edificio rurale fortificato con torre e corte: un tipico e rustico “habituro acto a fortezza” (per citare una nota definizione che nella portata al catasto del 1427 Averardo di Francesco di Bicci de’ Medici impiegò per definire il suo possesso, insieme al figlio, di Cafaggiolo). La piccola fortificazione delle Torri era posta a Settentrione dell’antichissima chiesa di San Quirico a Legnaia ed era di proprietà dei Capponi, famiglia guelfa, secondo una comune ma non realistica tradizione preveniente proprio dalla zona attorno a Legnaia, alla quale Firenze aveva delegato buona parte del controllo dei confini occidentali forse sin dalla fine del XII secolo. Si giungeva al palagio fortificato dei Capponi percorrendo una deviazione di via Pisana, che iniziava all’altezza della Federiga (nota anche con il toponimo di Marronta), dove si trovava lo 'spedale' “per infermi, bianti et pellegrini” di Sant'Jacopo, poi detto dei Santi Niccolò e Bernardino o del Cappone, fondato da Buonamico Capponi a metà del Duecento (nel 1252 il vescovo di Firenze, Giovanni de’ Mangiadori, vi designò l’”hospitaliarius”).

Allorché, nel Duecento, quando in Toscana iniziarono di nuovo ad essere largamente utilizzate anche le strade di fondovalle, la via per Pisa - come si è detto, oramai sempre più in mano alla Repubblica guelfa - divenne nuovamente “carrareccia” ("strata carraria"), sorsero o si ingrandirono (fra XIII e XIV secolo) vari ‘spedali’, come quelli di San Giuliano in Verzaia (creato nel 1331), di San Biagio a Monticelli (fondato nel 1329) o l'altro già rammentato alla Federiga, e s'ampliarono i borghetti sorti presso i cippi miliari della vecchia strada consolare, ricalcanti i vici romani.

Nel Trecento saranno edificate le ulteriori strutture fondamentali per la definizione del borgo di Monticelli: la Compagnia di San Pietro - fondata nel 1308 - e, appunto, il rammentato ‘spedale’ di San Biagio. Il 'Popolo' di San Piero a Monticelli si dilatava anche a Nord di via Pisana, fino all'Arno, nella rammentata piana alluvionale posta ad Occidente di Verzaia, detta Pian di Legnaia. Il ‘Pian di Legnaja’ si estendeva, infatti, dall'Isolotto ad Est fino a Cintoia ad Ovest (dove era esistita una antichissima curtis, nota fino dal 724, di proprietà del Capitolo della cattedrale di Firenze) e dall'Arno a Nord fino all'Olivuzzo e a lambire i colli di Soffiano a Sud.

La piana di Monticelli-Legnaia-Cintoia, che sarà nuovamente bonificata soprattutto a partire dal Cinquecento, vedrà importanti scienziati (come Leonardo da Vinci nel 1503/1505 o, in seguito, Vincenzo Viviani, tra il 1653 e il 1698) che la studieranno e realizzarono fondamentali opere a carattere idraulico per la regimentazione del fiume e per la bonifica dei 'renai' e delle ‘isole’ che vi si trovavano, formate da rami secondari detti - come si è già ricordato - 'spighe' dell’Arno o 'bisarni' (nell'accezione appunto di biforcazione del corso d'acqua). La principale era la già citata Isola di Legnaia, poi detta Isolotto, lunga quasi un chilometro e larga circa 400 metri, documentataci in un disegno primocinquecentesco di Leonardo da Vinci e ancor oggi individuabile nel tessuto urbano, coincidendo ancora la sua antica perimetrazione con il primo tratto dell'attuale via Bronzino, via del Palazzo dei Diavoli e via dei Mortuli, che rappresentavano la viabilità lungo-fiume dalla parte della sponda sinistra meridionale 'di là d'Arno'. L'alveo del ramo secondario d'Arno sarà poi in parte ricalcato da via di Torcicoda.

Tra gli interventi idraulici effettuati nel Cinquecento il più imponente resta l’Argin Grosso o Argine dell'Anconella (posteriore all’alluvione del 1557 e documentatoci per la prima volta nel 1582), connesso, nel suo tratto più orientale, allo Stradone d'Arno o del Maglio (dove si giocava la pallamaglio), alle strutture portuali (dette dell’Anconella e solamente in seguito denominate del Pignone) ed al futuro sviluppo stradale e urbanistico del borgo di pescatori. I terreni umidi e bassi posti tra l'Argin Grosso e il fiume, destinati ad invaso di espansione durante le piene, mantennero renai e larghe fasce di terreno incolto o "sodo", con canneti, arbusti ed alberi d'alto fusto, in parte destinati anche alla carpenteria navale nel vicino porto del Pignone (insieme ai più importanti tronchi di abeti che giungevano per fluitazione dal Casentino e da Vallombrosa). Questo Bosco d'Arno costituiva la Bandita di Caccia e Pesca Granducale di Legnaia o dell'Isolotto.

2. Il borgo di Legnaia e la chiesa di Sant'Angelo nel Medioevo (secoli X-XIV)

Presso l'incrocio tra via di Scandicci (via della Volta a Legnaia - cioè della 'svolta' all'altezza di Legnaia - o via della Torre) e la Pisana, in posizione mediana fra le vecchie seconda e terza pietra miliare, era sorto il borghetto lineare di Legnaia, là dove già in epoca romana dovette esistere un vicus. Qui dovevano esservi vasti depositi di legname (proveniente essenzialmente dal Bosco d'Arno, ma anche dalle selvose colline verso Scandicci Alto e, forse, per fluitazione dalle aree montane ad Oriente di Firenze), dai quali derivò il toponimo di "Lignaria", cioè legnaia.

Incrocio strategico e luogo di confine, Legnaia nell'XI secolo doveva probabilmente essere ancora sotto l'influenza del Cadolingi, lungo il rammentato diverticolo della via Francigena diramandosi dalla Pisana.

Già nella prima metà XII secolo il borgo di Legnaia, però, fa parte della “Judicaria florentina”, cioè dipende da Firenze ed è oramai ben consolidato e legato in parte alla nobiltà guelfa del contado, in particolare alla predetta famiglia degli Orciolini, proveniente dal castello di Linari in Valdelsa. Nei turbolenti anni sessanta del Duecento, gli Orciolini (che avevano le loro case nel Sesto d'Oltrarno verso San Frediano, in quello che poi diverrà il Gonfalone del Drago) furono di stretta fede guelfa e Ruggero e Donato di Giambolo (o Giambone) combatterono a Montaperti nel 1260 (quest'ultimo è rammentato nel noto Libro di Montaperti). In seguito alla sconfitta guelfa, i Ghibellini devastarono le loro case e le loro terre e gli abitanti di Legnaia dovettero rifugiarsi “intra turrem”. Bencivenni di Buonaguida di Giambone ebbe distrutta anche la propria casa nel 'popolo' di San Frediano e la famiglia fu costretta a fuggire da Firenze e a rifugiarsi a Lucca. Solo nel 1266, decaduta la fortuna ghibellina, verranno indennizzati dalla Repubblica guelfa. A Legnaia, però, continuò ad essere presente una consistente rappresentanza di famiglie ghibelline fino al Trecento, se ancora, dopo la discesa in Italia di Arrigo VII (1311-1313), furono condannati vari uomini di Legnaia perché, ghibellini, avevano appoggiato l’imperatore, fra i quali rammentiamo Lapo e Bencino Maledetti, Lippo di Geri, Geri di Piero ed i figli di Neri di Gregorio.

La rammentata torre degli Orciolini verosimilmente non era altro che il cassero della cosiddetta Rocca di Legnaia (forse precedentemente al 1113 dei Cadolingi), poi in mano ai Fiorentini e a difesa occidentale proprio contro le ultime ingerenze ghibelline. Tale rocca è citata per la prima volta dai documenti solamente alquanto tardi, nel 1340. Il 23 aprile di quell'anno, infatti, Tieri di Caroccio Agli prese possesso di tale fortilizio, come faranno anche Ranieri di Bindo Vecchietti ed infine Venturino di Guiduccio il 28 maggio 1341.

La “Rocca” turrita (un fortilizio verosimilmente simile a quello già rammentato delle Torri a Cintoia, dei Capponi) da taluni, come si è detto, fu erroneamente identificata con il ricordato Palagio de’ Diavoli, che non si trovava esattamente a Legnaia, ma, lo ripetiamo, nelle vicinanze di Monticelli. Spetta a Romano Bechi aver contestato tale affermazione, identificata ipoteticamente, invece, con gli scomparsi avanzi di spesse muraglie venute alla luce nel 1959 all'interno dell'isolato delimitato dalle moderne vie dell'Olivuzzo, Spinello Aretino, Cosimo Rosselli e Domenico Veneziano. Una curtis comprendente la rammentata e robusta torre a pianta quadrata e verosimilmente le stalle, i granai interrati, le rimesse, gli "habituri" dei servi e dei soldati, forse una piccola cappella e l'abitazione del balivo, delegato alla ripartizione e allo stoccaggio nei magazzini delle derrate alimentari e a capo delle milizie e dell’organizzazione strategico-logistica della curtis stessa. A nostro avviso, l'identificazione del Bechi è sostanzialmente corretta, salvo il fatto che il recinto murato e merlato delimitante la curtis lambiva solamente il settore occidentale del predetto isolato moderno, per estendersi ad Ovest lungo l'odierna via Spinello Aretino, in direzione di via di Scandicci o Volta a Legnaia. Non a caso, infatti, il primo tratto di tale strada, ad iniziare dalla Pisana, era anche denominata, come si è detto, via della Torre. Qui, come diremo in seguito, ancora nel Settecento erano presenti "muri antichi", forse i residui della cinta della nostra roccaforte.

In prossimità del borgo esisteva anche il Palagio alla Volta di Legnaia lungo l'omonima strada, in mano agli Strozzi fino agli inizi del Trecento (risulta già alienato nel 1317) ed in seguito passato ai Pandolfini, come avverrà anche per l'altro Palagio nel Piano alla Volta di Legnaia dei Carducci (a Sud della Pisana, in via di Guardavia, sorto per contrastate il castello cadolingio di Soffiano), che verrà acquistato da Giannozzo Pandolfini nel 1476. Con il termine di Pian della Volta a Legnaia, infatti, era noto tutto il tratto della pianura a Sud della via Pisana in direzione di Soffiano e di Scandicci, fino all'incrocio con via di Guardavia (denunciante, anche nel nome, la sua origine strategica e militare).

Il borghetto lineare di Legnaia si estendeva lungo il lato meridionale della Pisana, ad Est e ad Ovest dell'incrocio con la via di Scandicci, ma prevalentemente lungo il lato settentrionale, fino a raggiungere l'altro incrocio con la via che da quella Pisana si dirigeva a Nord nella piana più prossima all'Arno, verso la Querce.

Presso la Volta a Legnaia, in corrispondenza della cantonata sudoccidentale tra via della Torre o di Scandicci e via Pisana, lungo quest'ultima erano alcune casette a schiera di proprietà dell’Eremo di Camaldoli, vale a dire del monastero di San Salvatore di Camaldoli “a piè del Monte” presso l'odierna piazza Tasso, documentato fin dagli inizi nel XII secolo. Queste case erano dei Camaldolesi almeno fin dagli inizi del Trecento (ancora esiste sulla facciata un caratteristico pietrino con la indicazione "di camaldoli" e un più tardo stemma camaldolese). Iniziando dall'incrocio tra le due rammentate strade, ai primi tre edifici seriali, tipicamente a due assi di finestre e con orto retrostante, seguivano, proseguendo verso Ovest, un “casolare” ed infine l’osteria di Legnaia, di maggiori dimensioni rispetto alle precedenti costruzioni, documentatici in un disegno cinquecentesco. Più ad Occidente, la via Pisana era fiancheggiata, sempre lungo il suo lato meridionale, da un alto muro di cinta, nel quale si aprivano alcune porte carraie. Ancora in un cabreo settecentesco sono graficamente descritte tali case: quella in cantonata con una bottega terrena, le due contigue verso Occidente, con due botteghe, un forno ed una corte interna in comune, ed infine l'edificio ad uso di osteria, con il grande orto retrostante, allora però ridotto a "pallottolajo" (cioè terreno dove si giocava alle pallottole, simili alle bocce, o con la ruzzola).

Ad Oriente dell'incrocio tra la Pisana e la via per Scandicci erano, invece, altre cinque case a schiera tardomedievali (sempre con orto retrostante) di proprietà della Badia Fiorentina, con botteghe terrene ad uso di biadaiolo, beccaio, sarto (monna Nicolosa di Nanni) e calzolaio.

Lungo il lato settentrionale di via Pisana si trovavano, invece, le case di altri Enti religiosi fiorentini, tra i quali il monastero femminile di San Pietro Martire (fondato da Leonardo Dati nel 1418 in via de' Serragli), anch'esse contrassegnate da stemmi in pietra indicanti la proprietà, dei quali alcuni ancora esistenti.

Presso il piccolo ma strategico agglomerato rurale di Legnaia, immediatamente ad Occidente del rammentato incrocio con la via conducente alla Querce, era sorta la chiesa che, almeno secondo il Moreni, in origine era stata dedicata a San Salvatore e solamente in seguito, invece, a San Michele Arcangelo.

Secondo Carlo Celso Calzolai, il primo documento nel quale sarebbe citata questa chiesa de Lignaria risale al maggio del 1009 e quindi, basandosi su di esso, potremmo con ragionevolezza pensare che l'edificio sacro già esistesse almeno nella seconda metà del X secolo, cioè in età ancora cadolingia. Purtroppo, Calzolai interpretò male la pergamena e da una più attenta lettura comprendiamo come in essa si parli semplicemente della donazione della quarta parte di una "sorte", "positam ipsam sorte[m] in loco qui dicitur Lignaria", retta da "Petrus massajus" che Giovanni del fu Orso regalò alla Canonica fiorentina. L' Ecclesia citata alcuni righi più in basso, infatti, non è una chiesa di Legnaia, ma quella di San Giovanni, cioè la predetta Canonica fiorentina.

Ancora dal Bechi è stato ipotizzato che la chiesa originaria di San Michele fosse di origine longobarda e di culto ariano, in antitesi a quella di San Quirico, di culto romano (ortodossamente niceno), ma nota solo dal 1038 (allorché l'imperatore Corrado II confermò alla Badia Fiorentina vari beni presenti nel suo 'popolo'). Questo 'bipolarismo' non è certo né probabile in quanto presuppone una presenza capillare longobarda nel contado che non è stata ancora dimostrata, sebbene la Michelucci Cortini fin dagli Anni Novanta, nella sua egregia tesi di laurea, abbia evidenziato come già negli anni Ottanta del IV secolo - quindi addirittura ben prima della conquista longobarda - gli Ariani stessero dilagando ampiamente all'interno di Firenze e, soprattutto, nei borghi d'Oltrarno, apud pontem, e - noi aggiungiamo - probabilmente anche mescolandosi ai Siriaci e agli Ebrei in quel crogiuolo di genti, di culture e di fedi verosimilmente costituito dal porto occidentale di Verzaia. È possibile teoricamente che la chiesa di Legnaia, comunque, se davvero dedicata a San Salvatore, fosse legata ad origini germaniche, di ascendenza forse longobarda, perché in effetti la dedicazione della maggior chiesa longobarda intra moenia era a San Salvatore, come spesso accadeva (basti pensare al monastero di San Salvatore a Brescia, al San Salvatore di Spoleto o, in Toscana, all'Abbadia di San Salvatore all'Amiata, fondata dal re Rachis a metà dell'VIII secolo), continuando una tradizione ariana già invalsa nel IV secolo. Anche la dedica a San Michele Arcangelo è, comunque, estremamente ricorrente in età longobarda. La dedica di chiese a San Salvatore e a San Michele non si esaurì, però, con l'eclisse dei Longobardi e dell'Arianesimo, ma rimase caratteristica delle stirpi germaniche fino ai Cadolingi compresi (anche la più tarda badia cadolingia rammentata a Settimo era dedicata a San Salvatore).

Rimane arduo, senza nessuna prova documentaria, ipotizzare che inizialmente a San Michele fosse dedicata una cappella posta nella Rocca, già forse esistente come castello cadolingio prima di passare agli Orciolini e al Comune di Firenze: spesso tali cappelle erano state dedicate fin dal tempo dei Longobardi al “guerriero celeste” Michele, cristianizzazione di Marte, e così pure fecero i Cadolingi nel X-XI secolo (basti pensare a San Michele entro il loro castello di Montecascioli). In tal caso, poi, il nome sarebbe stato unito a quello della chiesa di San Salvatore, ma - ripetiamo - tutto ciò è una mera congettura senza basi storiche.

Ciò premesso, non possiamo scartare aprioristicamente l'ipotesi dell'esistenza, nei secoli V-VI, di un'originaria ecclesiunculaariana connessa alla viabilità facente parte della rete stradale costituita dai diverticoli della Francigena, ma non ne abbiamo neppure nessun indizio plausibile. Parrebbe estremamente probabile, semmai, che nel X secolo esistesse come edificio sacro legato alla terra cadolingia.

Questa chiesa si trovava in posizione quasi equidistante tra le rammentate chiese di San Quirico e di San Pietro, nate presso i precedenti e 'trafficati' pagi ad lapidem e legate certamente al Cattolicesimo romano-niceno, ed era certamente connessa - se esistente - a percorsi territoriali legati, ripetiamo, alla Francigena del X secolo, ma già consolidatisi in età longobardo-carolingia.

Secondo la consuetudine, l’ipotetico edificio sacro originario era disposto con la facciata rivolta ad Ovest. A navata unica, più corta rispetto a quella attuale, forse neppure dotata di un'abside semicircolare catinata.

Le prime notizie certe della chiesa risalgono solo al Duecento. Sappiamo, infatti, che nel 1274 e nel 1275 la chiesa di Sant'Angelo, che allora era una rettoria, pagava una decima di due libbre e dieci soldi. Sempre nel 1275 è ricordata pure nelle carte di Cestello. Il 3 aprile 1286 il suo rettore, "Ugolinus rector ecclesie Sancti Angeli de Lignaria", è presente in Duomo al raduno del clero per la ripartizione delle tasse.

Ugolino è il primo rettore a noi noto della chiesa, poi sostituito da Puccio di Dolcebene, documentatovi nel periodo compreso fra il 1292 ed il 1298. L'edificio sacro è ulteriormente ricordato nel testamento di ser Uguccione di Pilastro della Faggiola, risalente al 10 giugno 1300, verosimilmente appartenente a quella stessa famiglia feudale ghibellina ramificatasi dai conti Feltri di Carpegna, cui apparteneva il ben più noto Uguccione di Ranieri della Faggiola. Forse doveva già allora esservi rettore un Giovanni (poi documentatovi nel 1318). A questi seguirono, come rettori, Piero di Ugolino (nel 1335), Piero di Banco (nel 1347 e forse morto di peste l'anno seguente) e Salvi di Giunta dall'Impruneta (dal 1348 al 1396). Nel 1347 l'abate di Sant'Antimo elesse il predetto rettore della chiesa di Sant'Angelo, Piero di Banco, amministratore dei beni del monastero di Monticelli.

Pertanto, possiamo dire con ragionevole probabilità che la chiesa esistesse già almeno a metà del Duecento: a navata unica, larga come l'attuale, verosimilmente absidata e con il canonico asse di sviluppo Est-Ovest. A Nord della chiesa doveva forse esservi un'area cimiteriale, mentre ad Est di un probabile chiostro meridionale (per accogliere i pellegrini in transito?) era posta la piccola canonica, prospiciente la via. La canonica originaria - una domus solariata, vale a dire dotata di un piano superiore - corrispondeva all'ambiente della sala ora contigua al più tardo presbiterio ad aula della chiesa ed era costruita in robusti conci d'arenaria, dei quali alcuni sono ancora ben visibili nell'attuale piano interrato. La spessa muraglia, che qui possiamo ancora osservare, costituita, come si è detto, da blocchi d'arenaria uniti da una robusta calce, in seguito è stata in parte ricostruita in occasione dell'erezione del nuovo presbiterio quadrangolare, per dare maggior sostegno a quest'ultimo.

Fra Tardo Duecento ed inizi del Trecento, forse a causa di alcuni crolli nella chiesa e dovuti all'inconsistenza del terreno, la chiesa fu verosimilmente ricostruita almeno in parte e, forse, ipoteticamente, anche allungata verso Ovest (sebbene non lo riteniamo probabile). La lieve flessione delle pareti longitudinali verso Sudovest, infatti, fa presupporre una riedificazione di porzione della navata con un modesto disassamento, così che la nuova porta di ingresso non sarà più in asse perfetta con l'area presbiteriale. Rimane ancora perfettamente conservato il filaretto in conci regolari di arenaria (proveniente dalle cave di pietraforte del Monte di Bene, Monteoliveto) costituente la parete meridionale, visibile dal lato originariamente esterno. La navata era dotata lateralmente di finestre monofore, alcune delle quali tornarono alla luce durante i lavori di ristrutturazione eseguiti nella seconda metà del Settecento.

La larghezza della nave nel settore orientale - quello che dovrebbe essere il più antico - è circa di m 6,55/6,60, parrebbe corrispondente a 15 piedi di Liutprando (un piede = cm 44), l'unità di misura di origine longobarda che si richiamava al cubitus romano e che venne impiegata a Firenze fino all'inizio del Duecento. Sul piede di Liutprando si basava anche la ricostruzione cluniacense della rammentata badia a Settimo e l'edificazione di quella di Mantignano. La lunghezza della navata, prima dell'allungamento settecentesco, era di m 14,75, cioè 33,54 piedi di Liutprando e, pertanto, l'aula si basava sul rapporto 'incommensurabile' di 1:√5 (1:2,236), che era proprio degli edifici romanici toscani dei secoli XI-XII, compreso lo stesso duomo di Pisa. Tali rapporti confermerebbero una chiesa il cui terminus ante quem per la fondazione sarebbero gli inizi del Duecento.

A Sud della nave, tra quest'ultima e la strada, era sempre il predetto claustrum, anch'esso delimitato da muri in conci a filaretto (ma meno regolari rispetto all'apparecchio murario della chiesa), dei quali una porzione è tuttora visibile nel muro occidentale, perpendicolare alla navata e allineato con l'originaria facciata, di fronte alla quale era il sagrato, uno spazio che si apriva sulla pubblica via, dove avvenivano pure le inumazioni. Fin dal Medioevo dovette esistere, a ridosso della parete longitudinale destra, rivolta a Sud verso il rammentato chiostro, un porticato per accogliere, come si è detto, i numerosi viandanti ed i pellegrini che transitavano di là.